Signora Bergsträsser: Lei lavora come dirigente medico presso l’Ospedale pediatrico di Zurigo e dirige il centro di competenza per le cure palliative. Mi parli del suo lavoro per favore.
PD Dr. Eva Bergsträsser: Questo mi è importante da sottolineare: non ci prendiamo cura solo di bambini e adolescenti malati terminali negli ultimi giorni, ore. Il nostro lavoro inizia molto prima. A volte subito dopo la nascita. E può durare alcuni anni.
Una chiara differenza rispetto all’assistenza degli adulti.
Esattamente. Le cure palliative negli adulti sono molto più focalizzate sul fine vita. Ci prendiamo cura di bambini di tutte le età, dai neonati ai diciottenni, e talvolta anche oltre. Occasionalmente – e spero che sarà di più in futuro – ci prendiamo cura dei bambini prima che nascano e, naturalmente, anche dei loro genitori.
Poiché si sa che il bambino avrà bisogno di cure non appena nascerà?
Sì. Il bambino ha una malattia che non gli permette di vivere che è stata rilevata geneticamente o mediante immagine e quindi si chiede ai genitori cosa desiderano. Dobbiamo fare di tutto o, se la situazione è già abbastanza difficile, dovremmo puntare sul comfort e dare una possibilità al bambino, ma non costringerlo a rimanere in vita.
Organizzare la cura dei bambini individualmente
La cura dei genitori, dei parenti e dei fratelli gioca un ruolo centrale.
Questo è in linea di principio il caso nelle cure palliative pediatriche. Ci concentriamo fortemente sulla famiglia, sull’ambiente. Ci prendiamo cura di un gran numero di bambini che sono gravemente malati neurologicamente e che sono verbalmente incapaci di comunicare. Quindi non possono dirci con la lingua parlata ciò che gli manca. Ecco perché la comunicazione avviene spesso tramite i genitori, a volte tramite i fratelli.
E questa cura non avviene solo nell’ospedale pediatrico?
No no. Di solito si svolge dove il bambino è più a suo agio ed è meglio accudito. Può essere in ospedale – ed è molto spesso così. Ma può anche essere a casa o in istituzioni per un’assistenza a lungo termine, in altre cliniche.
Chi vi contatta allora?
Di norma sono gli specialisti che ci contattano, meno spesso i medici di famiglia o i pediatri. A volte lo Spitex pediatrico fa da mediatore o i genitori ci chiamano direttamente perché hanno sentito parlare del nostro lavoro.
E quindi lei, le persone del suo team diventano le principali persone di contatto?
Persona di contatto principale direi di no. Poiché questi bambini soffrono di malattie che necessitano ancora di cure e per le quali di solito esistono ancora opzioni di cura. Ad esempio, se abbiamo un bambino con una grave malattia cardiaca, allora la guida è nelle mani dei cardiologi e dei cardiochirurghi: noi forniamo consulenza e supporto in background.
Essere presenti quando i bambini e le famiglie hanno bisogno di noi
E lei e il suo team accompagnate la famiglia?
È così. Siamo come una specie di coperta. A volte la si ha bisogno, a volte la si può mettere via. Siamo attivi in maniera coordinata, da accompagnamento.
Lei, il suo team, mettete anima e cuore in questo lavoro. Questo crea fiducia e abbassa l’ostacolo che c’è per chiamare in momenti inopportuni e chiedere aiuto.
È così, ed è il nostro obiettivo. Vogliamo essere informati per tempo in modo da poter costruire un rapporto e fiducia con il bambino, con i genitori, con i fratelli.
E le famiglie osano poi a chiamare in «momenti inopportuni»?
Possono farlo, e dovrebbero. Di notte e nei fine settimana. Le persone colpite sanno che il telefono dell’ospedale pediatrico è spesso con noi a casa.
La relazione finisce quando muore un bambino?
Di solito sì. Dopo la morte del paziente, il mio incarico medico termina. Formalmente è così. Abbiamo specialisti psicologicamente formati nel nostro team e offriamo assistenza dopo le cure, accompagnamo le persone in lutto. C’è un’ampia varietà di offerte.
Costruite relazioni. Possono essere più o meno intense …
Sì, è così. E queste non posso semplicemente troncarle. In certi casi ero molto vicina alle persone, alle famiglie, e le incontravo spesso. Allora è importante trovare un equilibrio umano e professionale. Un equilibrio che rispecchia le esigenze e anche le mie risorse, che non sono illimitate.
Le donazioni rendono possibile lavorare con anima e cuore.
Deve riuscire a porsi un limite.
Esattamente. Di solito funziona bene. La gente sa quanto sono impegnata.
Come viene finanziato il suo lavoro con così tanta passione?
Allora, non si tratta solo di finanziare la nostra passione, ma anche gli alti costi del personale, per esempio. Il cinquanta per cento viene coperto da donazioni.
Non si riuscirà mai a coprire i costi del vostro lavoro.
Giusto. Dipendiamo dalle liberalità per finanziare percentuali del segretariato, dei medici, degli psicologi e degli assistenti sociali e così via.
Inoltre, molte delle vostre offerte per i genitori e i parenti non potete addebitarle.
Sì, è così. Ci sono offerte per fratelli, per parenti, per famiglie che non possiamo addebitare. Nessuna cassa malati o assicurazione paga.
Signora Dr. Bergsträsser, lei ha costantemente conversazioni con le persone sulla vita e sulla morte. Quanta influenza ha questo lavoro sulla sua vita?
Non è solo difficile, è anche bello. Quando tale accompagnamento ha successo, quando avviene il passaggio dalla lotta per la terapia e la guarigione all’accettazione di malattie gravi e una vita accorciata, questo può rendere molto felici.
Felice nonostante un tragico destino?
Sì, se riusciamo ad aumentare la qualità della vita all’interno delle cure palliative. È bello vedere quando una famiglia non corre da medico a medico, ma usa la vita che rimane per fare qualcosa per il bambino malato e per la famiglia. Qualcosa che aiuterà a elaborare la perdita in seguito. Ma ovviamente ci sono anche momenti difficili. Ad esempio, se l’accompagnamento è durato settimane, se si è svolto giorno e notte, 24 ore su 24. Questo ti esaurisce sia fisicamente che emotivamente.
A volte deve essere possibile un abbraccio
Lì è necessaria una delimitazione.
Sì. Da me e il mio ambiente personale, da mio marito. Non voglio gravarlo sempre con il mio lavoro, eppure è palpabile. Sono magari triste perché qualcosa non funziona.
Allora è importante accettare l’ingiustizia della vita.
La bisogna sempre vedere, questo è qualcosa di molto essenziale.
Se qualcuno non parla la sua lingua, ha un passato migratorio, questo rende difficile lavorare insieme?
Dipende. Ci sono piccoli pazienti che non riescono a comunicare usando il linguaggio e ci sono genitori che non capiscono la nostra lingua, che non la parlano. Ci sono molti modi per comunicare e la comunicazione può essere incredibilmente forte. Supponiamo che le persone non possano dire di sì alla morte e notano che rispetto il loro pensiero, posso affrontarlo e comunque accompagnarli nel loro cammino, allora spesso si presenta una situazione felice.
Se si vuole confortare qualcuno nei tempi del Corona bisogna mantenere le distanze. In che modo la pandemia ha influito sul suo lavoro?
Ovviamente vivo anche io la distanza. E ci sono situazioni in cui non è possibile mantenere le distanze. Con me nessuno deve piangere dietro una mascherina. Io tengo su la mascherina. E quando c’è una situazione così difficile a volte abbraccio i genitori. Deve essere così. Così facendo non vado contro le misure di sicurezza contro il Corona, ma rimango umana.
Infine: qual è il suo augurio a noi, alla società, in materia di vita e di morte?
C’è ancora un certo tabù quando si tratta dell’incurabilità di malattie. Mi piacerebbe vedere una maggiore apertura al riguardo. Occorre dare valore a eventi così difficili e tragici. I genitori, le famiglie e soprattutto i fratelli che hanno dovuto vivere una tale perdita dovrebbero provare un apprezzamento che non sia accompagnato da ulteriore dolore.
Signora Dr. Bergsträsser, grazie per averci parlato al telefono e per le foto che l’Ospedale pediatrico di Zurigo ci ha messo a disposizione.
Intervista: Martin Schuppli, foto: Ospedale pediatrico Zurigo
L’Ospedale pediatrico di Zurigo è partner di DeinAdieu. Il link al profilo: